Galmozzi corsa fine anni 30 col cambio Vittoria Margherita


“Una volta se correvi in bici e avevi qualche ambizione mettevi da parte i soldi e prima o poi andavi a farti fare una bicicletta come si deve da un artigiano che aveva fama di eccellenza. A Milano i nomi erano i soliti: Cinelli, Galmozzi, Masi, Pogliaghi. Era un po’ come andare dal sarto: il telaista ti misurava, poi sceglieva la stoffa, i tubi, e il taglio, vale a dire lunghezze, altezze e inclinazioni, in funzione dalla specialità, strada o pista, inseguimento o velocità, e confezionava un telaio che ti cadesse a pennello proprio come un abito ben fatto. 

Il telaista lavora peró il metallo e non il tessuto e i suoi strumenti di lavoro sono simili a quelli del fabbro: morsa, lima, martello, cannello per saldare, insieme a qualche prezioso e insostituibile utensile autocostruito. Ci vogliono poi buone mani, passione ed esperienza. Oggi tanto i vestiti quanto le biciclette si comprano nei grandi magazzini, di sarti non ce ne sono quasi più, e nemmeno di telaisti. Se andate in cerca di qualcuna delle vecchie botteghe milanesi molto probabilmente ci trovate un bar alla moda dove un bicchiere di rosso vi costa come un pranzo in trattoria ma non sanno nemmeno dirvi che vino è…”

Queste parole rappresentano perfettamente ciò che è stato il panorama dei tealisti milanesi.

Galmozzi fà parte di questa piccolo gotha di telaisti, la cui cultura sartoriale è da tempo finita nel dimenticatoio… purtroppo.

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Vito Ortelli 1966 mod. coda di rondine

Siamo al vertice della categoria con uno dei telai tra i più prestigiosi

degli anni sessanta …il coda di rondine di

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con predisposizione alla forcella dei freni Mafac 53

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con maglia originale Ortelli

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telaio 1766 = 17 settimana del 1966

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forcellino posteriore coda di rondine

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bici corsa Rivola 1977

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per capire chi era Rivola basta vedere il cambio record del 1972

uscirà a catalogo solo nel 1974 !!!

era uno dei collaudatori di fiducia di TULLIO CAMPAGNOLO

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deragliatore Campagnolo leva lunga secondo tipo

la O di Rivola è fatta a cuore fino al 1972

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il lato superiore della forcella fu limata a mano , andrà di moda alla fine degli anni 70

collezione privata

bici corsa COPPI 1956/1957

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  • non ricordo se del 1956 o 1957

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  • L’addio a Coppi 51 anni fa. Venturelli: “Ero il suo erede”

    51 anni fa la morte di Fausto Coppi. Per celebrare il ricorso del grande campione riportiamo una testimonianza particolare: quella di Romeo Venturelli, scelto da ragazzo da Fausto nella San Pellegrino, direttore sportivo Gino Bartali, che ricorda: “mi diceva: ma sto’ disgraziato va sempre così forte in discesa?”

     

     

    A Castellania (Alessandria), dove il Campionissimo era nato nel 1919, tra i tanti che lo ricordano c’è Romeo Venturelli, che proprio Coppi aveva eletto suo erede forse già nella Milano-Vignola del 1956. Fausto Coppi fora poco prima dell’arrivo. Gli altri se la danno a gambe, lui rimane a piedi. Gli si affianca una macchina, quella dell’Unione sportiva Pavullese. “Signor Fausto, ha bisogno?”. Lui va dentro, la bici sul tetto. E via, al traguardo. Chi siete, che cosa fate, avete dei ragazzi in gamba?, chiede Coppi. Ma sì, uno in particolare, gli risponde Trento Montanini, direttore sportivo: si chiama Romeo Venturelli.

    Venturelli, ricorda il primo incontro con Coppi?

    “A Sanremo, Gp d’Apertura, marzo 1957. Mi aspettano su una salita. Ci arrivo fra gli ultimi. Montanini rotea un tubolare e mi minaccia. Inseguo, recupero, riporto il gruppo quasi sui primi tre in fuga. Poi mi rialzo. Faccio così un paio di volte. Alla fine i tre arrivano in fondo e io faccio quarto. Montanini mi chiede perché non li ho raggiunti. Gli dico la verità: avevo voglia di vincere, non per distacco, ma con una volata di gruppo”.

    Poi?

    “Nel 1958 Coppi m’invita una settimana a Novi Ligure per allenarci insieme. Devo preparare la Modena-Pavullo a cronometro, che per me vale più di un Mondiale. Biagio Cavanna mi massaggia: ‘Questo ha i muscoli per diventare un campione’. Pedaliamo sulle strade di Coppi: Sassello, Scoffera, Giovi… Una volta gli chiedo se ha qualcosa da farmi mangiare. Siamo in discesa, viaggiamo a 70 all’ora. Lui stringe il telaio con le gambe, fruga nelle tasche, mi allunga un panino. Poi a Montanini domanderà: ‘Ma ‘sto disgraziato va sempre così forte in discesa?’”.

    Risposta?

    “La verità: anche di più. Coppi si affeziona a me e alla Pavullese. Quello stesso anno, al Giro dell’Emilia, Montanini manda uno dei nostri, Benedetto Benedetti, a chiedere a Coppi, in albergo, se ha bisogno di qualcosa. La Dama Bianca non permette che Coppi sia ‘disturbato’. Poi Benedetti viene richiamato dal portiere e fatto salire in camera. Coppi chiede di preparargli due borracce con caffè, miele e biscotti Plasmon, e di farsele consegnare da me, su una certa salita. Un giorno ci arrivano sei bici Bianchi. La sua ricompensa”.

    Com’era Coppi?

    “Si raccomandava: vita da corridore. Diceva: ‘Ho avuto tanti incidenti, ma l’importante è insistere’. Predicava minestroni e frullati, pesce e carne ai ferri sì, salumi no, tanta verdura e frutta, allenamenti quotidiani e duri, molto riposo, poco o niente donne. In bici, mi diceva di usare rapporti più leggeri, altrimenti mi avrebbero spaccato le gambe. Invece a me piaceva esagerare. Prima di una corsa ero capace di mangiare un’intera forma di formaggio da fossa. Una volta Coppi mi sgridò perché mi ero tuffato su zampone e fagioloni: ‘Che sia l’ultima volta!’. Quanto a donne e motori, mi era difficile resistere. Per questo Coppi aveva pregato Montanini: ‘Romeo ha bisogno di voi, stategli vicino’”.

    Eppure la considerava il suo erede.

    “Nel luglio 1959 Fausto passa una settimana a Pavullo: mangia con noi, si allena con noi, dorme all’albergo Speranza. In una corsa nel Vicentino mi segue perfino sull’ammiraglia. Alla fine dell’anno non aspetto l’Olimpiade di Roma e passo professionista. Nella San Pellegrino. Direttore sportivo Gino Bartali, capitano Coppi, io – diciamo – vice. Coppi ha 40 anni, io 21″.

    Invece?

    “In dicembre Fausto va in Africa. Quando torna a Milano, la Dama Bianca Giulia Occhini non si era fatta viva. Passo a prenderlo all’Hotel Andreola e lo riporto a casa sulla mia 1100 Fiat nuova.  Centocinquanta all’ora su strade statali, lui neanche una parola. Sta già male. Entriamo nella villa, mi chiede di fermarmi a cena: dobbiamo parlare della prossima stagione. Giulia Occhini accolse Fausto dicendo: “Sei qui, non potevi stare ancora in Africa?’”. A cena mi trovai in imbarazzo vedendo il cameriere in guanti bianchi. Fausto mi disse che dovevo dormire alla villa perché il giorno dopo avremmo parlato di allenamenti. Non rimasi perché Coppi, stanco di sentire la Occhini dire che un giorno o l’ altro sarebbe partita lei, sbottò dicendo che poteva andare anche subito. Mi scusai e andai via. Povero Fausto: non l’ ho più rivisto”. 

    Cioè?

    “Il 2 gennaio 1960 sono a Pavullo. Alla radio sento che Coppi è morto. Scoppio a piangere. Vado al funerale. Una marea di gente, che neanche ci sta sulla collina. Se Fausto non fosse morto, la mia vita sarebbe stata diversa. Più regolare, più vincente, più ricca. Migliore”.

     

    Romeo Venturelli

    Romeo Venturelli è nato a Sassostorno di Lama Mocogno (Modena) il 9 dicembre 1938. A lui avevano fatto la corte in molti perché da dilettante aveva dimostrato di saper andare con facilità su ogni percorso. Accettò la proposta della San Pellegrino perché nel ‘ 60 si sarebbe trovato al fianco di Coppi. Piaceva a Fausto perché aveva il colpo di pedale del passista di razza ed era convinto che, se avesse rispettato le severe regole del ciclismo, si sarebbe difeso bene sulle salite lunghe. All’ esordio, avvenuto due mesi dopo la morte di Coppi nella Parigi-Nizza, Venturelli battè Anquetil e Rivière in una crono di 37 km. A parlare di lui come di un “treno” fu Anquetil, re della specialità, dopo che venne nuovamente sconfitto nella crono di Sorrento nel Giro dello stesso anno. Memorabile, nel 1960, la sua vittoria nel Trofeo Baracchi, classica gara a cronometro a coppie, che chiudeva la stagione. A Brescia, in coppia con Diego Ronchini, vinsero, percorrendo i 110 Km in 2h 30′ 20″, alla media di 43,902 Km/h, precedendo Baldini-S.Moser di 42″.

    Non si può dire che Venturelli abbia rispettato le regole citate da Coppi (piaceva a Fausto perché aveva il colpo di pedale del passista di razza ed era convinto che, se avesse rispettato le severe regole del ciclismo, si sarebbe difeso bene sulle salite lunghe). Concluse la sua carriera nel 1971 con sole 6 vittorie nella sua attività professionistica, l’ultima delle quali al Giro del Piemonte del 1965. Chi lo diresse si stupì, vedendolo pedalare con una facilità che aveva dell’incredibile; ma si sa che, per vincere e durare a lungo, alla dote naturale è indispensabile associare molti sacrifici.

    Abita a Laigueglia.

    (articolo di Marco Pastonesi – la Gazzetta dello Sport 2 gennaio 2009)

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  • caratteristica forcella

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bici pista di Ortelli 1939

  • rarissima bici pista Ortelli

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Mi chiamo Vito in onore di un grande amico di mio padre.quel Vito Casadio suo compagno di balli, anch’egli Reda ,vicino a Faenza , e morto in battaglia durante la guerra 15\18.Fu un gesto di riconoscenza che mio padre volle esprimere verso questo suo amico, che un giorno fu vittima, proprio per mano sua, di uno spiacevole incidente. Nel periodo cui lavorava all’officina Marabini, mio padre gli capitava di riparare  armi e riusci perfino a fabbricare una rivoltella, che poi vendette a un contadino di Albereto.Quando però questi si ripresentò qualche tempo dopo lamentandone  il mancato funzionamento ,per costatare se l’arma fosse inceppata, senza verificare che non ci fossero colpi in canna tirò soprappensiero il grilletto mentre l’arma era puntata verso il povero Vito Casadio, che era passato a salutarlo in officina. Vito!!!! ti ho preso ? chiese mio padre terrorizzato….. il Casadio rispose no, forse per la tensione, istantaneamente non dovette neppure avvedersi della ferita, ma era stato colpito, seppur di striscio, e la sua camicia bianca prese a tingersi di rosso. per fortuna nulla di grave, e siccome presentandosi in ospedale sarebbe stato obbligato a denunciare il fatto. Questo Vito Casadio  acconsentì a farsi medicare dalla levatrice, che con una piccola incisione gli estrasse il proiettile.Il suo comportamento consolidò ulteriormente l’amicizia che già li univa e mio padre ritenne in seguito di essergli riconoscente dandomi il suo nome

 

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